[ trad. it. di A. Petrelli, Superbeat, Vicenza 2015 ]
Composto nel 1939 a Parigi, dove l’autrice, ebrea e comunista, viveva sin dall’avvento al potere di Hitler, e pubblicato inizialmente in lingua inglese negli Stati Uniti nel 1942, il romanzo La settima croce fu subito oggetto di una fortunata riduzione cinematografica hollywoodiana e divenne in breve un bestseller internazionale: ripubblicato nella Berlino occupata dai sovietici nel 1946, assurse a lettura canonica nelle scuole della DDR (dove la Seghers visse fino alla morte, ricoperta di onorificenze e di incarichi ufficiali) ed è tutt’oggi considerato uno dei capolavori della Exilliteratur. La vicenda si svolge nel 1937 in Germania, nelle zone intorno a Magonza (città natale dell’autrice), e prende le mosse dalla fuga di sette detenuti dal campo di concentramento di Westhofen. Il comandante del campo, accecato dalla rabbia, ordina quindi di tagliare la chioma ai sette platani che si ergono su un lato del campo e di inchiodare delle assi sui tronchi in senso longitudinale, così da realizzare sette croci su cui egli si ripromette di appendere gli evasi. Solo una croce resterà vuota: è quella destinata al comunista Georg Heisler che grazie all’aiuto di gente comune riesce a sfuggire alla serrata caccia all’uomo e a scappare in Olanda. Con efficace taglio cinematografico l’autrice compone centinaia di scene in cui la vicenda viene narrata mettendo a fuoco un singolo personaggio, così da creare un quadro polifonico e assai variegato della società tedesca negli anni del nazismo; la Seghers, ammiratrice dei Promessi sposi, si riproponeva infatti di tratteggiare un affresco della società dell’epoca a partire da un singolo evento, quale, appunto, l’evasione e la fuga di Heisler. L’ambizione sociologica traspare con evidenza nel sottotitolo, colpevolmente assente nell’edizione italiana, ovvero: Un romanzo dalla Germania hitleriana. Negli intenti dell’autrice, l’esito positivo della fuga di Heisler testimonia, da un lato, come la dittatura nazista non fosse inattaccabile («un evaso che ce la fa è pur sempre qualcosa.
Crea sempre fermento, un dubbio nella loro onnipotenza. Una breccia» commenta il narratore alla fine del Primo capitolo) e costituisce, d’altro canto, la riprova che molti tedeschi – sono coloro che aiutano Heisler nella fuga – pur non possedendo una precisa coscienza politica, avversavano intimamente il nazismo.
Benché l’opera risulti per certi aspetti datata (la pletora di personaggi, un certo sentimentalismo dei dialoghi e una patina nobilmente retorica tradiscono l’età del romanzo), la maestria dell’autrice nel tenere le fila di una trama assai articolata, l’abilità nell’adozione di tonalità e registri stilistici diversi, la capacità di creare personaggi vivi e verosimili, la ricchezza storico-documentaria nel tratteggiare i diversi atteggiamenti della popolazione nei confronti del nazismo e il sincero afflato democratico costituiscono pregi indiscutibili e imperituri del romanzo della Seghers.
La traduzione di Eusebiu Vicol, pubblicata nella «Medusa» mondadoriana nel 1947 e ristampata fino agli anni Settanta, presentava, sì, diversi errori, nonché alcuni vocaboli ed espressioni ormai desueti, ma era, nel complesso, una versione scorrevole ed elegante, basata su un periodare robusto, ritmato ed efficace. Non altrettanto si può dire per la presente traduzione che si segnala per uno stile spesso opaco e poco perspicuo e che, pur emendando meritoriamente molti errori di Vicol, ne introduce altri, e ben più gravi, come nel finale, laddove il narratore, congetturando sulla fine di Fahrenberg, il comandante del campo, suppone: «Forse Fahrenberg è caduto dalle scale, oppure ha ottenuto ancora più potere», laddove, invece, la traduzione corretta è del tutto diversa: «forse ha fatto carriera e detiene un potere ancora maggiore».
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